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Segnali radio e fasci di luce verso lo spazio profondo. E nel film “Arrival” c’è una linguista a tradurre gli alieni

on progetti come Seti (Search for ExtraTerrestrial Intelligence) stiamo provando ad ascoltare, o addirittura ad andare a cercare, eventuali “alieni intelligenti” che abitino vicino a noi.

 

Per esempio, la più grande avventura planetaria in radioastronomia, il progetto Ska (al quale partecipa anche l’Italia), avrà una dimensione Seti. Saremo capaci di captare una emissione radio da un pianeta di una qualunque di tutte le stelle entro trecento anni luce da noi (sono molte migliaia), inclusi i radar dei loro aeroporti, se li hanno.

E possiamo anche cercare di inviare fasci laser, un po’ tipo messaggi nella bottiglia lanciati in cielo. Una versione moderna delle placche poste sulle sonde in viaggio fuori dal sistema solare: il laser è emesso in impulsi intensi ma brevi, ed è promettente grazie alla sua efficienza energetica. Ma cosa trasmettere, e soprattutto come interpretare una risposta, insomma come intendersi con E.T., rimane un problema di linguaggio.

Ci aveva già pensato Magellano, nel 1519. In partenza per il giro di un mondo ancora molto ignoto per forma e contenuti, prese a bordo Antonio Pigafetta, un veneto di buona cultura, oltre che raccomandato dal Papa. Privo di qualunque conoscenza di navigazione, venne arruolato come “interprete”. Un ruolo impossibile, nel quale però fu bravissimo, per esempio con i Patagoni, alieni prima di tutto dal punto di vista linguistico.

Chissà se l’eccellente Denis Villeneuve, il regista di “Arrival”, ha letto il diario di Pigafetta. O se si è ispirato a Carl Sagan, genio della planetologia ma anche della comunicazione (“Contact”), o a Fred Hoyle, astrofisico e autore di quel capolavoro di linguaggio interstellare che è “La nuvola nera”. Non importa. Quando, nel film, arrivano dodici astronavi aliene che si parcheggiano un po’ a caso sopra varie nazioni della Terra, oltre agli inevitabili carri armati, è il momento di tirar fuori i linguisti.

Lo fanno un po’ tutti, dai cinesi ai russi agli africani, perché gli alieni fanno paura: stanno zitti e fanno i misteriosi. Tutti, perfino la Cia e il Pentagono, capiscono che il linguaggio è sempre più importante di quello che crediamo, e si rivolgono, cappello in mano, alla miglior linguista disponibile (la grande Amy Adams), una che le sa tutte: traduce al volo dal farsi al mandarino.

Di fianco alla prof di linguistica, gli Usa mettono un rassicurante (?) fisico teorico, di quelli un po’ pallosi che per parlare con gli alieni comincerebbero dalle cifre di pi greco o dalla sequenza di numeri primi. Insomma, uno che evidentemente non conosceva Wittgenstein: “se un leone potesse parlare, non lo capiremmo…”. Perché il problema è tutto lì, nel capire cosa vuol dire linguaggio nel senso più ampio possibile. Il grande Tullio De Mauro citava la “zoosemiotica”: impariamo a comunicare con le api, i polipi (intelligentissimi), le balene (anche), per non dire del nostro cane o gatto. Sarebbe già un buon allenamento per gli alieni.

Comunque, la coraggiosa Amy Adams se la cava benissimo dentro l’astronave nebbiosa, davanti ad alieni che per fortuna si fanno vedere poco (sono bruttissimi). Capisce che le tondeggianti sbavature un po’ schifose che loro disegnano sono un alfabeto evoluto e allora lei tiene in mano un cartello con su scritto “Human” e il ghiaccio è rotto. Anche gli alieni devono aver mandato un prof di linguistica.

Nel film succedono un sacco di altre cose: per esempio, i cinesi minacciano di dichiarare guerra agli alieni, ma una opportuna rottura del continuum spazio-temporale (ah, “Interstellar”…) permette di risolvere la situazione. E non tutto si capisce bene, ma non importa: certo la figlia Hannah della prof è stata chiamata così perché è un nome palindromico di sei lettere, e non ce ne sono tanti.

Il film è bellissimo, va assolutamente visto. Anche perché, se arrivassero davvero, per ora abbiamo solo una bozza di “Manuale di conversazione aliena” fatto dalla Nasa, opera che bisognerebbe proprio ampliare. Ma anche se E.T. non arriva, con progetti come Seti (Search for ExtraTerrestrial Intelligence) stiamo provando ad ascoltarli o addirittura ad andare a cercarli. In mezzo secolo abbiamo fatto un progresso tecnico enorme in radio e adesso coi laser, ma con il linguaggio universale, invece, siamo ancora un po’ indietro.[fonte]

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